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lunedì 9 agosto 2010

Il conflitto tra palestinesi e israeliani

Il Medio Oriente dista dall'Italia poche ore di aereo, eppure ci è difficile decifrare gli avvenimenti inquietanti e sanguinosi che attraversano quest'area geopolitica ormai da decenni e che negli ultimi mesi hanno conosciuto un'angosciosa escalation di violenza.
Non so dire se sia la più grave del nostro tempo, in termini di vittime e di crudeltà perpetrate; in molti Paesi dell'Africa forse accade quotidianamente di peggio nell'indifferenza generale; ma certamente la questione palestinese è quella che occupa la priorità nell'agenda di politica estera delle principali nazioni del mondo sviluppato e nella coscienza dei loro cittadini, fino a essere diventata il paradigma dello scontro fra due civiltà, quella araba e musulmana da una parte e quella occidentale dall'altra.

Noi tutti in Occidente, senz'altro in Italia, dove le comunità ebraiche vantano una presenza rilevante e qualificata in numerose città, siamo stati sensibilizzati alle sofferenze che nell'ultimo secolo sono state inflitte agli ebrei: discriminazioni, persecuzioni, campi di sterminio. L'Ebreo è assurto a Vittima per eccellenza di quel secolo sanguinario che è stato il Novecento in Europa.
Gli ebrei hanno goduto e godono, dal dopoguerra in poi, di molte simpatie e solidarietà; in più, molti di noi sono colpiti dalla cultura che questo popolo ha saputo esprimere, dai bellissimi libri che ha prodotto: "Se questo è un uomo" di Primo Levi, tormentosa e penetrante testimonianza della vita nei campi di concentramento nazisti, è per esempio ormai un classico della letteratura italiana, e molta è la letteratura novecentesca italiana di qualità, si pensi a Bassani, prodotta da membri delle comunità ebraiche o da scrittori di origini ebree.
Inoltre israeliani, o di origine ebrea, sono scrittori fra i più significativi e apprezzati in Occidente: Yehosuha, Grossman, Oz, Philip Roth, Bellow, Malamud.
Conosciamo perfettamente, attraverso i loro magnifici libri, il loro modo di ragionare, di affrontare le principali questioni della vita, li sentiamo affini; molti di loro sono i nostri maestri di contemporaneità, ci hanno fornito le coordinate per cercare di comprendere il mondo.

Per questo restiamo allibiti e increduli di fronte alle foto, ai filmati e ai servizi giornalistici che ci raccontano le violenze, le carneficine, gli stermini prodotti in questi giorni dalle truppe di Sharon. Questo aspetto ombra, violento, rozzo e irrazionale degli ebrei ci sorprende e ci spinge a cercare di capire.
Anche se la situazione appare, a noi che la osserviamo un po' da lontano, enigmatica, un vero e proprio rebus. Troppe le variabili in gioco, troppo ingarbugliata la matassa, la catena di rancore e di odio, le incomprensioni culturali e razziali, le umiliazioni e le sofferenze che dal 1949 caratterizzano la coesistenza di due popoli, quello israeliano e quello palestinese. Una convivenza resa difficile forse già dalla spartizione territoriale della zona. Gli israeliani si sentono minacciati nella loro sicurezza e nel loro diritto a costituirsi in nazione, i palestinesi si sentono oppressi, ghettizzati, spodestati, colonizzati, cacciati a forza dai loro territori.
Ad un certo punto la situazione è diventata insostenibile al punto che i palestinesi hanno organizzato attacchi terroristici (ma loro non li riconoscono come tali, li definiscono atti di martirio, necessari alla causa palestinese e alla guerra santa) affidati a kamikaze che fasciati di bombe si lasciano esplodere facendo vittime fra i civili, rendendo impossibile a milioni di israeliani attendere alle più comuni attività quotidiane: fare la spesa, ballare, lavorare, divertirsi normalmente, rendendoli prigionieri di una plumbea, cupa, cappa di paura. La reazione degli israeliani è stata una guerra, da loro definita "contro il terrorismo", che assume sempre più i connotati dello sterminio di massa, almeno a giudicare dalle notizie diffuse dai media.

Tra tutte le possibili soluzioni del conflitto mediorientale, quella che si prospetta mi sembra la peggiore. Non occorre essere psicologi professionisti per capire che l'escalation simmetrica, la spirale innescata di violenze sempre più crudeli, è il modo peggiore di rimediare a qualsivoglia conflitto, fosse pure fra popoli. Le vittorie militari conseguite possono davvero tramutarsi, a gioco lungo, in vittorie di Pirro. La violenza non fa che alimentare la ribellione e l'odio che, anche se momentameamente sopito, non tarderà a manifestarsi in violenze reattive ancora più efferate. E forse a rinfocolare quell'antisemitismo strisciante e vergognoso che ancora fa di tanto in tanto capolino dal più torbido inconscio europeo

L'unica strada da intraprendere appare quella del dialogo, delle concessioni reciproche, del compromesso, della mediazione. La costituzione, ad esempio, di due stati autonomi. La rinuncia, da parte di Israele, ai territori occupati, l'impegno degli arabi ad accettare una civiltà diversa dalla loro.
Certo, a parole è più facile che nella vischiosa, concreta, fattuale realtà.
Ma la Palestina è terra di miracoli e la speranza non deve mai abbandonare il cuore degli uomini.